ESTRATTI DAL LIBRO

 

Superata la collina il paesaggio si mostrava ancor più verdeggiante, con pochissime case e muretti: da quel lato non c’era bisogno di protezione dal vento forte.
C’erano però le scogliere a picco sul mare.
Non ebbi il coraggio di arrivare al limite per ammirare lo strapiombo sotto i miei occhi. Volli restare qualche attimo, immobile, di fronte all’infinito orizzonte che avevo davanti.
Godendo della visione del cielo immenso, mi ritrovai a pensare a come sarebbe stata la mia vita se non avessi avuto questo carattere così tenace, forte e determinato; se non avessi avuto questo soffocante desiderio di vivere, appieno, ogni attimo della mia esistenza e di voler essere, nonostante tutto, come le altre donne; se non avessi avuto una famiglia come quella che stava attendendo il mio ritorno in Italia…
Era difficile immaginarlo.
Sapevo solo che, quando la mia vita, appena cominciata, avrebbe subito dovuto finire, fu lì che, invece, malgrado tutto, iniziò.
Ripensando a quel che era stato, ero certa che nessuno avrebbe scommesso un centesimo sul mio futuro e sul fatto che, diventata donna, sarei riuscita a viaggiare e a costruirmi una vita normale e dignitosa.


La prima volta che indossai i tutori alle gambe e fui messa in piedi, avevo appena due anni. Fino a quel momento i miei arti inferiori erano stati preparati, oltre che con operazioni chirurgiche, con ore ed ore di fisioterapia e con il contenimento, durante il sonno notturno, in dolorose valve.
I miei genitori avevano gli occhi colmi di lacrime e un’emozione incontenibile quando mi videro per la prima volta in piedi.
Piangevo come una fontana perché quei cosi stringevano e facevano male, ma mio padre, aprendo le braccia e scoppiando di felicità, mi incitò: «Samuela dai, cammina! Vieni da papà. Vedrai che, pian piano, camminerai da sola». Quindi rivolgendosi a mia madre: «Il più è fatto. Chi l’avrebbe detto? Samuela in piedi sulle sue stesse gambe! Vedrai, riuscirà anche a camminare da sola e a muoversi liberamente!».
Mia madre, che vedeva le situazioni nella più cruda realtà e non si illudeva mai, gli rispose bruscamente: «Samuela non riuscirà mai a camminare da sola! Vuoi aprire gli occhi per favore? Avrà sempre bisogno di aiuto. Non so come sarà la sua vita, ma so di certo che non riuscirà mai a camminare in autonomia. Io ce la metterò tutta per farle muovere qualche passo liberamente ma… il più non è fatto. Il più comincia ora!».


Con la promozione si presentò l’esigenza di scegliere quale scuola superiore intraprendere. Di interrompere gli studi nemmeno a parlarne. Mia madre era ancora ben decisa a farmi studiare fino a cento anni, nonostante sapesse bene di non poter contare su alcun tipo di aiuto esterno né, tanto meno, su quello delle istituzioni.
Questa volta, oltre alle mie naturali inclinazioni, chi decise il tipo di studi da affrontare fu, soprattutto, il mio ingombrante “compagno di viaggi” che mi seguiva fin dalla nascita. Scartate, difatti, tutte le scuole tecnico-scientifiche, decisi alla fine per il liceo classico, e addirittura privato, perché risultò essere l’unico istituto, oltre che confacente alle mie attitudini letterarie, ad avere un ascensore che, dal piano terra, mi avrebbe potuto far salire ai piani alti, dov’erano le aule. Mi fu spiegato che il liceo classico richiedeva grande impegno e dedizione e, soprattutto,
quasi inevitabile, il proseguimento degli studi con una facoltà universitaria.
Non ero pienamente consapevole di tutti i sacrifici che avrei dovuto affrontare, ma non avevo altra scelta.
Almeno a livello inconscio, mia madre era riuscita, a furia di ripeterlo quotidianamente, a trasmettermi l’importanza che poteva rappresentare per me lo studio. Sentivo che poteva davvero costituire un mezzo di riscatto e che avrebbe potuto darmi gli strumenti necessari per inserirmi a pieno titolo nel mondo del lavoro. D’altro canto non potevo certo pensare di fare l’operaia in fabbrica: non mi ci vedevo proprio nel ruolo di orlatrice di scarpe con la bocca!
Iniziavo a prendere consapevolezza dei miei limiti e delle mie potenzialità. Iniziavo a capire che dovevo puntare tutto sulla mia testa…
Mi ero sentita dire da più di una persona che io, dal collo in su, ero più che normale. Allora perché non convogliare tutti i miei sforzi proprio dal collo in su?
Dopo i primi sconquassamenti del periodo adolescenziale, pur permanendo dubbi, incertezze e quesiti esistenziali irrisolti, avevo deciso cosa volevo essere e cosa volevo fare.
Nonostante le mie limitazioni.


L’affettuosa amicizia con Gianpiero mi fece capire che, come tutto il resto, anche l’amore non sarebbe stato una cosa facile per me. Ma se avessi incontrato una persona senza pregiudizi, come quel ragazzo che ora, nell’assemblea d’istituto, mi stava stringendo la mano, anch’io avrei potuto provare quella straordinaria emozione.
Ero ben consapevole che in un’eventuale relazione sentimentale dovevo escogitare altre strategie, anche seduttive, non possedendo quelle che madre natura aveva previsto per le mie coetanee. Ancora una volta avrei dovuto “lavorare di testa”, intrigare con le potenzialità che esprimevo dal collo in sù: il gioco di sguardi, la calda tonalità della voce, le tenere movenze dei lunghi e riccioluti capelli avrebbero fatto il resto.
Non avevo certezze sul sentimento che ci stava legando.
Troppo spesso Gianpiero mi diceva che non riusciva a capire cosa in realtà provasse per me. Un giorno ammetteva di volermi bene come ad una sorella, ed un altro si sentiva legato a me come fossi la più intima delle amiche. Insomma, si sentiva confuso ma altrettanto certo che per lui ero una persona speciale.


Quando dovevamo parlare vis a vis andavamo spesso al porto. E anche stavolta accettai, perché ero curiosa di sapere cosa avesse combinato, e perché mi piaceva godere della visione del mare da quella prospettiva.
Guardavo quella distesa azzurrina, illuminata dal sole del tardo pomeriggio, mentre due gabbiani volavano liberi, uno inseguendo l’altro, in un cielo disturbato solo da due candidi nuvoloni che donavano un’atmosfera particolare a ciò che ci circondava.
Un leggero venticello rendeva ancor più piacevole quel momento: mi spettinava i capelli, e tentava di aprire la giacca di lino bianco che indossavo sopra un completo blu petrolio.
Seduta sulla sedia davo le spalle al paesaggio collinare che incorniciava il porticciolo con tutte le barche ormeggiate. Matteo era di fronte a me, appoggiato ad uno scoglio, con la sigaretta accesa e gli occhiali da sole con cui tentava di proteggersi dal riverbero della luce e, forse, dall’imbarazzo per ciò che stava per raccontarmi.
Era molto teso, e cercò di dissimularlo: “Qua si sta proprio bene… Un po’ di pace e tranquillità, dopo giorni difficili, almeno per me. E tu? Che mi dici?”.
Aveva un evidente bisogno di sfogarsi quindi, senza tanti giri di parole, andai dritta al punto.


Ero cosciente che stavo facendo domande inusuali per una giornalista ma sapevo che tanto, oramai, aveva capito tutto.
Chiudemmo l’intervista con una dedica su un libro che mi ero portato, e con una foto ricordo. Il libro era “L’arte di amare” di Erich Fromm.
Lui mi guardò, e con un sorriso complice, dopo aver scritto la dedica, aggiunse: “Leggila solo quando sarai tornata a casa”.
Discesa di nuovo in terra ma ancora inebriata, mi diressi in carrozzina verso l’uscita e lo sentii dire a qualcuno dello staff: “Mi raccomando, stasera questa ragazza deve essere sistemata davanti a me”.
Al momento non capii bene ciò che Athos intendesse.
Lo capii dopo, quando mi ritrovai seduta in primissima fila, proprio di fronte a lui.
Attendendo il suo arrivo sul palco, non riuscii a trattenere la curiosità: aprii la copertina.
Mi vennero le lacrime agli occhi quando, sulla prima pagina del libro, con una scrittura poco decifrabile, riuscii a leggere: “Alla mia amica Samuela, con ammirazione e nuova e bella amicizia. Athos Minardi”.
Ebbi la conferma di non aver fallito quella sera.
Non avevo conosciuto, come invece qualcuno aveva predetto, la più grande delusione della mia vita.
Lui era rimasto affascinato dalla mia persona e sembrava avere intenzione di rivedermi ancora.
Per un attimo provai la sensazione di vivere un magnifico sogno.


Si avvicinò, mi fissò negli occhi attentamente.
Poi, con grande sicurezza, mi diede la mano.
Fu un gesto che mi colpì profondamente. Quasi tutti evitavano di farlo, come se le mie mani deformi potessero contaminarli. Alcuni ritraevano subito la propria, altri reagivano in modo altrettanto umiliante sostituendo il significativo scambio di mani con un buffetto sulle guance.
Provare invece la stretta sincera, senza imbarazzi, di quella donna alta e fiera mi trasmise una forza e una sicurezza inaspettate. Capii che dietro quella corazza fredda e impenetrabile doveva esserci una brava professionista e, soprattutto, una persona capace di accogliermi ed aiutarmi.
Si sedette su una poltrona di pelle nera, dietro una grande scrivania quasi sepolta da fogli e cartelle. C’erano
un computer acceso, un telefono che squillava in continuazione, una grande pianta in un angolo della stanza, scaffalature piene e sobri quadri alle pareti.
Questi semplici arredi e la sua naturale sicurezza mi trasmisero la convinzione che anche un lavoro fatto solo di carte potesse essere interessante. Forse non avevo sbagliato ad abbandonare l’idea di fare la stilista di moda.
E fu così che mi convinsi a tentare la strada per un impiego amministrativo. Magari avrei anche puntato ad un posizione di rilievo. Avrei voluto sedere, invece che su una carrozzina, su una prestigiosa poltrona dietro una grande scrivania.


Questi iniziarono a spiegare nel dettaglio, e quasi crudelmente, le finalità della ricerca e come doveva essere realizzata.
Ascoltavo attenta, cercando di restare imperturbabile, senza far trapelare alcuna emozione, neanche con un battito di ciglia.
Ogni tanto, quasi per senso di sfida, tornavo a scrutare il presidente che mi fissava speranzoso in un mio cedimento.
E, in effetti, stavo per capitolare quando il giovane dottore, con subdola delicatezza, si addentrò in un ragionamento che risvegliò, inevitabilmente, il mio spirito di Erinni: “Ecco, dottoressa Baiocco, conoscendo la sua… determinazione nel voler svolgere questo lavoro, noi… beh, sì, avremmo pensato, sempre che lei sia d’accordo, che potrebbe rimanere in sede a fare telefonate per programmare le visite a domicilio delle sue colleghe. Che ne dice? Penso che potrebbe essere un’ottima soluzione”.
Mi sentii, ancora una volta, ferita ed umiliata. Accecata dalla rabbia dimenticai i problemi che avevo incontrato nel reperire un’auto e un accompagnatore.
Mentre l’odioso barbuto m’invitava con la testa ad accettare una onorevole sconfitta, finalmente esplosi: “Vi ringrazio per l’accorato interessamento nei miei confronti ma, se non sbaglio, il bando richiedeva esplicitamente una laurea in sociologia, non il titolo di centralinista. Per caso ho letto male? No perché, io sarei laureata in sociologia, ma non ho alcuna competenza come centralinista”.


Era un uomo di età indefinibile, probabilmente oltre la cinquantina, con uno sguardo enigmatico e severo nascosto da un paio di occhiali con lenti spesse che rendevano ancora più indecifrabili i suoi occhi.
Durante il mio discorso, sebbene lo avessi scrutato continuamente, pareva indossasse una maschera di ghiaccio non avendo accennato alla benché minima espressione.
Quell’uomo incuteva timore ed imbarazzo. Sensazioni che aumentarono quando, mantenendo quella sua fastidiosa imperturbabilità, buttò là una domanda che poco c’entrava con le materie d’esame.
Non sapevo, sinceramente, cosa rispondere ed iniziai a tremare come una foglia. Percepii un certo imbarazzo nello sguardo delle due esaminatrici, ed invece un guizzo di sarcastica soddisfazione in lui.
Ero tentata di mollare: era chiaro che si trattava di una trappola per farmi cadere. Ma quando stavo per cedere accadde una cosa, apparentemente insignificante ma per me decisiva che interpretai come un segno del destino: un raggio di sole filtrò dalla finestra sfiorandomi la guancia come una dolce e rassicurante carezza da parte di qualcuno a me invisibile.
Rassicurata e consapevole che mi giocavo il tutto per tutto, ripetei a me stessa che non avrei permesso a nessuno di umiliarmi, tanto meno al presidente della commissione.
E così, con sagace spavalderia e tirando fuori tutta l’energia che avevo in corpo, iniziai a rispondere.


Detestavo la staticità cui ero costretta e odiavo rimanere ferma in un posto: il mio spirito ribelle, beffardamente
imprigionato in un corpo tanto limitato, mi chiedeva di andare, di volare, di fuggire. Non potevo più accontentarmi dei luoghi che di solito frequentavo,
né delle persone amiche che mi accompagnavano.
Vovevo scoprire nuovi spazi, e volevo farlo da sola.
Da sola? Già, le mie solite paturnie…
Io, da sola, cosa mai avrei potuto fare?
Eppure, quel desiderio era così forte che sentivo di dover tentare di tutto pur di spezzare quelle catene che mi legavano da sempre.
E l’idea venne. Semplice, sublime, dirompente.
Non ero così sciocca da non capire che avevo bisogno di gambe e braccia da sostituire alle mie per viaggiare in autonomia.
Autonomia, parola magica…
Adesso potevo. Disponevo di uno stipendio tutto mio e di un mio conto corrente. Avrei utilizzato il denaro per trovare quel paio di gambe e di braccia che mi occorrevano. Ed avrei finalmente spiccato il volo!
Semplice a dirsi: offrire il viaggio a chi avesse acconsentito ad assistermi ed aiutarmi per quella settimana di vacanza. Pensai che nessuno avrebbe accettato un baratto di questo tipo, e invece…


Mi resi conto davvero che l’avventura stava iniziando quando le valige furono ritirate per essere imbarcate.
Per un attimo mi sentii persa. Ero in balia di una persona che conoscevo appena. Per carità, carina, disponibile, garbata, ma pur sempre quasi una perfetta sconosciuta.
Lasciai durare quei sentimenti qualche secondo, poi la felicità e l’orgoglio presero il sopravvento. Mi sentivo fiera di essere arrivata sin lì e, come una bambina nel paese dei balocchi, ero incuriosita da tutto ciò che mi accadeva intorno.
Per la prima volta vedevo, dal vivo, le hostess, con le loro giacche blu dal taglio perfetto, con le gonne dritte che accarezzavano le belle gambe tornite e che finivano sensualmente appena sopra il ginocchio. Il foularino blu e verde, attorno al collo, a rimarcare un’elegante femminilità nonostante l’apparenza seria delle loro divise così contenute. Sentire poi il rollio dei trolley degli stuarts sui pavimenti consumati mi procurava, non so come, un’eccitazione fortissima…
Ero lì, con loro, ed anch’io sarei partita, anch’io avrei fatto parte, per qualche ora, del loro fantastico mondo. Si perché, di lì a poco sarei finalmente salita sull’aereo. E non vedevo l’ora di testare la pedana elevatrice che mi avrebbe condotto a bordo.
L’orario previsto per il decollo era quasi arrivato, e i minuti restanti sembravano interminabili.


La mia casa intanto prendeva forma e dopo qualche mese ebbi finalmente, dal costruttore, le chiavi che annunciavano la conclusione dei lavori.
Quando varcai la soglia per la prima volta fu come entrare in un tempio: mi sembrava impossibile che quel piccolo mondo fosse mio, soltanto mio. Erano stanze vuote ma io le vedevo già arredate, vissute, consumate. Entrai in quella che sarebbe diventata la mia camera da letto e vi rimasi per un po’, in silenzio, fino a quando non cominciai a piangere.
Ripensavo alle mille difficoltà che avevo incontrato nella vita, allo scetticismo di tante persone che non avevano mai considerato la possibilità che io potessi realizzarmi, professionalmente e umanamente, come qualsiasi altra donna. Invece ero lì, in casa mia, e potevo gridare al mondo intero che ce l’avevo fatta.
Il passo successivo, dopo aver ammobiliato lo stretto indispensabile, sarebbe stato quello di provare a vivere qualche giorno da sola. Certo, avevo bisogno di un’assistente, ma di sicuro non avrei chiesto a qualcuno di casa o alle amiche.
Volevo la mia libertà. Troppe serate al cinema mi ero persa per l’indisponibilità di chi, fino ad un minuto prima, mi aveva assicurato che mi avrebbe accompagnata per poi, invece, inventarsi una scusa.


Caterina mi fotografò proprio con un cespuglio di fucsie selvatiche alle spalle, con i capelli ancora bagnati per la
tempesta di pioggia che avevamo incontrato durante la traversata con il battello.
Ogni giorno mi sembrava di vivere un sogno, e dovevo ringraziare, ancora una volta, la mia testardaggine per aver voluto assecondare i miei sani desideri.
Come in Inghilterra, in Irlanda si guidava a destra e, dopo un iniziale disorientamento, fu divertente accomodarmi,
nell’auto noleggiata, al posto che, in Italia, sarebbe stato del guidatore. Caterina fu brava e veloce nell’adeguarsi a questo cambiamento.
Aveva, come sempre, una guida sicura e rilassante, anche se i cartelli segnaletici erano scritti spesso nella sola lingua gaelica e le indicazioni, fornite dagli abitanti del luogo, risultavano per lo più incomprensibili.
Ogni cosa però diventava un pretesto per scherzare e riderci su, e così trasformavamo anche la più semplice situazione in momenti di puro divertimento.
Passavamo ore ed ore in auto per raggiungere le varie contee, quindi avevamo tempo per parlare.
Quelle larghe curve e quei panorami fantastici ci aiutavano a stare rilassate e potevamo impegnarci ancor più nel nostro chiacchierare.
Persino dentro Dublino non c’era il caos ed il traffico abituali delle nostre grandi città.

 

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Samuela Baiocco
“Correre oltre me”
Edizioni Zefiro

 

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